Incontri con la misericordia


La Sezione femminile del carcere romano di Rebibbia è una delle più grandi d’Europa, ha una capienza di circa 300 posti, ma è arrivata ad ospitare oltre 400 donne.
Come Francescana dei Poveri frequento questo luogo da oltre due anni e ascolto le donne che chiedono un colloquio con la suora. Fin dall’inizio sono rimasta stupita del numero di persone che si prenotavano. Poi ho capito che tantissime di queste donne non ricevevano nessuna altra visita oltre alla mia. Molte infatti sono straniere con famiglie lontane; molte vengono da situazioni di estrema povertà tale che per i parenti andare ai colloqui è un lusso inaccessibile; altre ancora hanno familiari malati, oppure avevano perso i contatti con loro ancora prima della detenzione.

Accolgo ciascuna con cordialità e benevolenza, sperando che colgano, al di là della mia inadeguatezza, la misericordia e la tenerezza di Dio. La simpatia e la semplicità con cui loro mi aspettano, trasforma i colloqui in momenti attesi e desiderati da entrambe le parti, come uno spazio speciale in cui possano emergere la speranza e la forza della Vita, malgrado e a dispetto delle situazioni più desolanti.

Accenno a qualcuna delle donne che incontro.

•    Clio ha 27 anni, è bulgara ed è la prima volta che entra in un carcere. A causa della pandemia, appena entrata è stata sottoposta ad isolamento sanitario in una sezione del carcere, che contiene due sole celle singole: sola per due settimane. Anche la donna della vicina cella è straniera, anche lei è in isolamento: si scambiano pianti e lamenti in uno stentato inglese, ma nessuna riesce a rassicurare l’altra. Quando esce dall’isolamento sono le stesse agenti che mi consigliano di incontrarla. Non mi conosce, lascio che mi faccia tutte le domande che vuole, a molte delle quali non so rispondere. Le dico che presto potrà incontrare il suo avvocato. Ad un certo punto smette di parlare, mi guarda a lungo negli occhi, mi prende le mani e comincia a piangere. Mi racconta la sua odissea. Il suo unico familiare è la mamma ammalata rimasta nel paese di origine. Non ha soldi, non ha vestiti, non sa di chi fidarsi.
Riusciamo a fare avere sue notizie alla mamma e poi tante piccole cose: i vestiti, i soldi per il telefono e l’abbonamento alla posta elettronica, una radiolina e le batterie per ascoltare della musica, ma soprattutto l’amicizia alimentata dai colloqui frequenti e dalla corrispondenza.

icm 01Un giorno mi racconta che prima di conoscermi si sentiva disperata e persa senza più la possibilità di avere un futuro. Così scrive: “Da quando sono finita in carcere mi sembra che tutti mi guardano e mi trattano col sospetto che sono solo una criminale. Invece tu mi hai guardato in un altro modo e ho sentito che potevo fidarmi perché mi avresti creduta. Così ho cominciato ad avere un po’ più di speranza, perché tu mi dicevi tante volte vedrai quando esci… ed io ho cominciato solo allora a pensare che dal carcere si esce. Era solo un pozzo senza fondo prima. Sei stata la mia famiglia qui, ti voglio bene e ti dico tante volte grazie.”
Ora Clio è stata scarcerata, è tornata dai suoi amici in Germania, dove studia e dove continuerà a seguire il processo per dimostrare la sua innocenza. Tornerà a credere nel suo sogno di diventare psicologa con molta più convinzione di prima, per aver sperimentato sulla sua pelle e visto nelle sue compagne di detenzione, quanti dolori dell’anima rischiano di restare grida soffocate.


•    Irene è italiana, a causa della tossicodipendenza ha fatto più volte tappa a Rebibbia.

É triste, ma contenta di conoscermi perché porto la stessa croce di sr Viera Farinelli, che mi ha preceduta in questo servizio. Si offre di farmi un po' da guida, dice che in carcere “bisogna saperci stare”. Così mi fa conoscere le donne più sole, quelle più arrabbiate, quelle più indifese. La sua solidarietà nei confronti delle compagne mi commuove. Riesce a farsi ponte tra me e loro in modo creativo, scanzonato…unico. Dopo qualche tempo, Irene viene mandata agli arresti domiciliari. Ha un tumore all’ultimo stadio e non può essere curata in carcere.  Lei me lo ha tenuto nascosto. Le telefono e chiedo se posso farle visita a casa. Il posto in cui vive, estrema periferia, palazzoni di edilizia popolare fitti come alveari, mi racconta, più delle sue schive parole, di quanto deve essere stata dura la sua vita. Le porto un po' di provviste, cibo sano e leggero, qualche indumento caldo… un bel mazzo di rose che raccolgo nel nostro giardino.

Mi accoglie e scoppiamo a piangere entrambe, poi un caffè, tante risate, l’aggiornamento sulle condizioni di salute, la promessa che le sarò accanto.
Per quanto impossibile possa sembrare il carcere le ha fatto un dono grande: ha ritrovato Dio, la Sua misericordia, la Sua amicizia. Porta le rose in camera e le mette davanti ad una immagine di Gesù. Mi dice che sicuramente è stato Lui a farci incontrare perché se mai le venissero dubbi di essere amata da Dio, per quelle rose e per la mia vicinanza, saprebbe bene come allontanarli.

Visitare le donne di Rebibbia è per me un privilegio enorme, perché ogni volta sperimento di poggiare i miei passi su quelli già percorsi da Dio nella sua immensa misericordia.  
Cosi non posso fare altro che condividere il dono del carisma di guarigione di Madre Francesca ed esclamare come faceva lei: “Lascia agire sempre e solo Lui e guarda con stupore e gratitudine l’opera Sua. Dal Signore viene la Vita, Egli solo la può dare”.

Sr. Mariapia Iammarino, SFP

Pubblicato: 27/01/2021

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