Simone Weil: il coraggio della verità, la perseveranza dell’attenzione

 

 Weil 1921     

«Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza di crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. […] Non è quella parte profonda, infantile del cuore che si aspetta sempre del bene a entrare in gioco nella rivendicazione. Il ragazzino che sorveglia gelosamente se il fratello non abbia ricevuto una porzione di torta più abbondante della sua cede a un movente generato da una parte molto più superficiale dell’anima. […] Ogni qualvolta sorge dal fondo di un cuore umano il lamento infantile che il Cristo stesso non ha potuto trattenere: “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia» (S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi 2012, pp. 13-14).
Simone Weil scrive queste parole a Londra, all’inizio del 1943. Pochi mesi dopo, ad agosto, sarebbe morta, a 34 anni, lontana dalla sua Francia, dove era nata nel 1909, da una famiglia ebrea della buona borghesia parigina, lasciandoci i suoi Quaderni (4 voll., Adelphi 1982-1993) e una mole considerevole di scritti politici, filosofici, spirituali che ne fanno, nonostante la giovane età, una delle maestre – non solo di pensiero, ma anche spirituali – del Novecento (cfr. S. Pétrement, La vita di Simone Weil, Adelphi 1994; G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga 2009).
Simone Weil si trovava a Londra dopo un lungo peregrinare, seguito alla fuga da Parigi, occupata dai tedeschi nel giugno del 1940. Fuga che si era imposta più per salvare i suoi amati genitori che se stessa. Nella città inglese viene assunta nelle fila del governo francese in esilio, con l’incarico di riflettere su ciò che sarebbe stato utile alla Francia dopo la liberazione dai nazisti (cfr. S. Weil, Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, Castelvecchi 2013). Il suo unico obiettivo, in verità, era quello di portare a compimento il suo progetto di “Infermiere di Prima Linea”, progetto giudicato folle dagli uomini che la circondavano, poiché prevedeva di combattere il nemico con il coraggio e la forza dell’amore e delle cure, che le infermiere avrebbero opposto, proprio dalla prima linea del fronte, alla crudeltà e alla brutale violenza dei nemici.
     

     Weil 1941

Non era la prima volta che la caparbia e lucida Simone veniva giudicata folle. Fin da bambina aveva avuto un’intelligenza vivacissima e una predilezione per gli ultimi della terra, ma anche una sete immensa di spiritualità. Come ha scritto a padre Perrin, il giovane domenicano con cui a Marsiglia, nel 1940, aveva intrapreso un importante dialogo spirituale: «A quattordici anni sono caduta in una di quelle disperazioni senza fondo tipiche dell’adolescenza, e a causa delle mie mediocri facoltà naturali ho pensato seriamente alla morte. Non rimpiangevo i successi esteriori, bensì di non poter sperare in alcun modo di accedere a quel regno trascendente ove entrano soltanto gli uomini di autentica grandezza e ove abita la verità. […] Dopo mesi di tenebre interiori, all’improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo di attenzione per attingerla» (S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi 2008, pp. 24-25). Una ricerca spirituale libera da ogni dogmatismo e non legata ad alcuna comunità – sempre a rischio, a suo avviso, di divenire “totalitaria” – sia che essa assuma la forma di un partito, come quello Comunista, a cui era vicina, ma al quale mai ha aderito, o di una chiesa, neppure quella Cattolica, a cui indirizza una critica serrata (cfr. S. Weil, Lettera a un religioso, Adelphi 1996). Una ricerca spirituale, abitata, per contro, dallo spirito di povertà: «Quanto allo spirito di povertà, non ricordo momento in cui non sia stato presente in me […]. Sono stata rapita da San Francesco fin da quando ne sono venuta a conoscenza. Ho sempre creduto e sperato che un giorno la sorte mi avrebbe spinta a forza in quello stato di vagabondaggio e mendicità da lui scelto liberamente» (S. Weil, Attesa di Dio, pp. 23-24). Non a caso, forse, uno dei contatti significativi con il cristianesimo avverrà proprio nei luoghi francescani: «Mentre mi trovavo da sola nella piccola cappella romanica del XII secolo all’interno di Santa Maria degli Angeli, incomparabile meraviglia di purezza, dove San Francesco ha pregato tanto spesso, per la prima volta nella mia vita qualcosa di più forte di me mi ha obbligata a mettermi in ginocchio» (S. Weil, Attesa di Dio, p. 28).
     

Weil 1943     

L’attenzione alla spiritualità, lo studio, la lettura, non la allontanavano mai dall’azione pratica, anzi, costituivano un tutt’uno con essa. Durante gli anni Trenta si era impegnata soprattutto nel sindacalismo rivoluzionario e nella riflessione teorica sull’oppressione sociale (cfr. S. Weil, Oppressione e libertà, Edizioni di Comunità 1956; Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi 1983), sempre schierata con i più poveri e le più povere – disoccupati, operai e operaie, minatori, carcerati, popolazioni colonizzate –, per quanto il suo lavoro fosse l’insegnamento, che lascerà per intraprendere un periodo di lavoro in fabbrica (cfr. Diario di fabbrica, Marietti 2015), al fine di sperimentare sulla propria carne il malheur, la sventura, che allora dominava le catene di montaggio e il lavoro a cottimo.
Si potrebbe dire che Simone Weil abbia intrapreso nella sua vita lo stesso movimento di “ritrazione” che Dio ha compiuto, a suo avviso, creando il mondo: bisogna essere, fino in fondo, un metaxú, un mezzo, un ponte, un “tramite”, tra Dio e l’universo. Essere passive e aperte all’ascolto, affinché le proprie azioni non siano dettate dai bisogni dell’Io, ma dal coraggio lucido dell’amore per il mondo e per ciascun essere umano: «Bisogna approvare l’abdicazione creatrice di Dio e felicitarsi di essere una creatura, una causa seconda, che ha il diritto di agire in questo mondo. Uno sventurato giace sulla strada, mezzo morto di fame. Dio ne ha misericordia, tuttavia non può mandargli del pane. Ma io che sono là, per fortuna non sono Dio; io posso dargli un pezzo di pane. È la mia unica superiorità su Dio. “Avevo fame e mi avete nutrito”. Dio può implorare un po’ di pane per gli sventurati, ma non può darglielo» (Quaderni, vol. IV, Adelphi 1993, p. 210).

Rita Fulco

Ricercatrice, filosofia teoretica, Università di Messina

 

Pubblicato: 02/02/2021

 

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